L’utilizzo terapeutico del rituale
Per rituale si intende una sequenza di azioni che vengono realizzate in modi, tempi e luoghi specifici, in genere con una forma stereotipata e ripetitiva.
Il rituale ha da sempre avuto nella storia della cultura umana una funzione taumaturgica, è stato da sempre utilizzato in diverse culture come elemento di cambiamento, per esempio per sancire il passaggio da una fase di vita ad un’altra. Il rito del matrimonio nella nostra cultura sancisce il passaggio da un tipo di relazione di coppia ad un’altra e il distacco dalla famiglia di origine.
Attualmente, come scritto da Watzlawich (1977), la funzione terapeutica del rituale si sta perdendo nella nostra cultura, in quanto viene data sempre più importanza alla razionalità, e il rito svalutato in quanto atto irrazionale e arcaico.
Watzlawich (1977) e Mara Selvini Palazzoli (1975) sottolineano l’importanza del rituale (Wazlawich propone per esempio l’utilità di un rito di passaggio per la separazione), e sviluppano delle tecniche comunicative e di intervento psicoterapeutico che si basano sulla prescrizione di un rituale.
Per Watzlawick (1977) il rituale ha una funzione terapeutica perché è una forma di comunicazione analogica e per questo in grado di eludere le difese della coscienza-razionalità, e produrre dei cambiamenti a livello percettivo, ovvero a livello dell’immagine del mondo che ha il paziente.
Per Mara Selvini Palazzoli (1975) il rituale permette di cambiare le regole di un sistema familiare disfunzionale, aggirando la sua tendenza omeostatica, che induce a squalificare qualsiasi intervento diretto mirato al cambiamento.
In sintesi la prescrizione di un rituale ha la funzione terapeutica di aggirare le difese del sistema (che sia un individuo o una famiglia), in quanto non si usa il canale razionale: non si spiega al soggetto o alla famiglia “come funzionano le cose”, ma si prescrivono una serie di azioni che producono un’esperienza tale per cui la famiglia o il soggetto stesso iniziano a comportarsi diversamente, ha scoprire regole di gioco più funzionali.
Rispetto l’uso terapeutico della prescrizione di un rituale riporto un esempio citato da Watzlawich (1977), che riprende un caso trattato da Maria Selvini Palazzoli. Il problema consiste in un bambino che viene trattato-etichettato dalla famiglia come “anormale”, per cui viene brontolato quando mette in atto comportamenti “normali” e lasciato stare quanto i suoi comportamenti sono francamente sopra le righe. All’intera famiglia venne data questa prescrizione dai terapeuti: “la sera stessa, dopo cena, l’intera famiglia, consistente di padre, madre, paziente designato, sorellina e nonna materna, avrebbe dovuto recarsi in processione, nella stanza da bagno, con il padre in testa, recante un vassoio con le medicine che venivano quotidianamente somministrate al bambino. Là giunti, il padre avrebbe dovuto rivolgersi al bambino con le seguenti parole: oggi siamo stati da quei dottori i quali ci hanno detto di buttare via tutte le medicine, perché tu non sei malato. Sei perfettamente sano. Sei solo un bambino villano, e noi non dobbiamo più tollerare i tuoi comportamenti”. Detto questo il padre doveva, lentamente e solennemente, versare nel gabinetto il contenuto di ciascun flacone, ripetendo ogni volta “tu non sei malato”.
Bibliografia
Selvini, M., Boscolo,L., Cecchin, G. & Prata, G. (1975). Paradosso e controparadosso. Cortina Editore
Watzlawick, P. (1977). Die moglichkeit des andersseins zur technik der therapeutischen kommunikation. Bern: Verlag HansUber(trad. it. Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, Milano, 1980).